Dicembre 1943.
Mancano pochi giorni a quello che per l’Italia è il quarto Natale di guerra.
Le grandi aspettative di vittoria che hanno accompagnato l’entrata del nostro paese nel conflitto, nel giugno del 1940, sono ormai del tutto svanite e la penisola è divenuta un immenso campo di battaglia sul quale si fronteggiano angloamericani e tedeschi.
Il paese è anche diviso al suo interno tra coloro che hanno scelto di rimanere fedeli a Mussolini e all’alleanza con la Germania, e coloro i quali, decisi ad opporsi al ritorno del fascismo e desiderosi di cacciare dall’Italia i tedeschi, hanno imbracciato le armi e sono saliti in montagna: si tratta di una vera e propria guerra civile, il cui livello di crudeltà e spietatezza è destinato a salire nei mesi a venire.
Il Biellese è una delle aree in cui il movimento di resistenza armata si è organizzato fin dai giorni immediatamente successivi all’armistizio dell’8 settembre; sul territorio sono presenti sei distaccamenti partigiani che contano un centinaio di uomini, determinati ma male armati.
La guerriglia langue a causa del perdurante attendismo del Cln biellese, che irrita anche la direzione comunista di Milano.
Trascorse diverse settimane di incertezza sembra però che sia finalmente arrivato il momento di agire.
Dopo il ritorno di Mussolini, a Biella sono ricomparsi i fascisti, e sono arrivati anche i tedeschi.
La vita va avanti, pur tra mille difficoltà; sulla città incombe una opprimente cappa di preoccupazione e angoscia: «La guerra aveva assunto dimensioni individuali, domestiche, agiva nelle coscienze provocando guasti profondi. Ora davvero potevamo dire di averla in casa e dentro ciascuno di noi. Il tempo trascorreva lento e sempre uguale, come se quell’immane tragedia non dovesse finire mai […] Strade deserte, sbattute dalla pioggia, clima invernale, rari passanti camminano frettolosi per le vie avvolti nei loro panni scuri, qualche ciclista pedala in fretta, i rumorosi tamagnòn dell’Avandero trainati da coppie di cavalli, attraversano piazza Battiani; mentre il tram di Oropa arranca lungo la salita di via Marocchetti verso il Bottalino, s’ode lo scalpiccio cadenzato degli scarponi militari sui selciati e sui marciapiedi nelle notti più buie della mia vita» (Bruno Pozzato).
All’inizio di dicembre l’aria è pervasa dalla sensazione che qualcosa stia per accadere.
E infatti i partigiani si muovono: incitano gli operai delle fabbriche a scioperare, assaltano i presidi dei carabinieri per recuperare le armi, cominciano ad attaccare i fascisti (Bruno Ponzecchi, direttore del Lanificio Giletti e commissario del Fascio di Ponzone viene fatto prigioniero e giustiziato il giorno 11); non esitano addirittura a spingersi fin dentro Biella per mettere fuori uso le rotative del giornale fascista "Il Lavoro Biellese".
Tra i fascisti cresce la preoccupazione.
Il capo della provincia Michele Morsero sollecita da tempo l’invio di rinforzi.
Si è rivolto a tutti, al Ministero dell’Interno, ai Comandi Generali della Milizia e dei Carabinieri, al comando militare tedesco di Vercelli, perfino al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Francesco Barracu, ma ha ricevuto sempre la stessa risposta: impossibile mandare rinforzi, al momento non ci sono.
Nel Biellese intanto gli scioperi vanno avanti, anzi si estendono: dopo quelle della Valsesia e della Valsessera, anche le fabbriche della Valle Strona e del Biellese occidentale si fermano.
Il comando germanico di Vercelli invia a Biella una compagnia a rinforzo della guarnigione presente in città: i nazisti sono ancora convinti che i "ribelli" possano essere dispersi senza troppo sforzo (come è avvenuto a fine ottobre con i gruppi di militari sbandati e di giovani antifascisti rifugiatisi nelle zone collinari del Biellese), ma non si sa mai.
É martedì 21 dicembre 1943.
Di prima mattina un ufficiale e un graduato, accompagnati da un capitano dei carabinieri, si dirigono su due automobili verso Tollegno, decisi a far sospendere lo sciopero in atto alla Filatura; quando le vetture raggiungono il bivio per Pralungo vengono bersagliate da numerosi colpi di fucile.
Gli uomini a bordo tentano di reagire ma i partigiani tengono sotto tiro la strada da posizione dominante e così lo scontro si risolve a loro favore: i tedeschi rimangono uccisi, l’ufficiale dei carabinieri viene catturato (sarà rilasciato qualche ora più tardi).
Due tedeschi morti: i nazisti non manifestano particolare interesse quando a cadere sono gli "alleati" fascisti ma non possono, e non vogliono, rimanere inerti di fronte all’uccisione dei loro commilitoni.
A peggiorare le cose si aggiunge, intorno a mezzogiorno, la morte di un altro ufficiale germanico, freddato a colpi di pistola da uno sconosciuto sulla salita di Riva.
Adesso la rappresaglia è davvero inevitabile.
Organizzati in una colonna motorizzata, i tedeschi tentano di risalire la Valle del Cervo e durante uno scontro a fuoco nei pressi di Pavignano catturano due partigiani, il diciottenne Alfredo Baraldo e Basilio Bianco, di un anno più anziano, che vengono condotti a Biella per essere interrogati.
In città intanto cresce la preoccupazione, si mormora che i nazisti vogliano dar fuoco all’intero quartiere di Riva; solo l’intervento del vescovo mons. Carlo Rossi, il quale si reca di persona dal comandante germanico, riesce a sventare la terribile minaccia: il quartiere è salvo.
Qualcuno deve comunque pagare per la morte dei tre soldati.
È ormai pomeriggio inoltrato.
Angelo Cena, di 42 anni, che tutti chiamano Giolino, proprietario della trattoria "Porto di Savona" situata all’angolo tra via Pietro Micca e via Littorio (via Amendola), è da poco rientrato a Biella (durante il giorno lavora in un’azienda agricola di Cerrione) e sta parlando con la moglie e le figlie.
All’improvviso alcune raffiche di mitra investono il locale, mandando in frantumi le vetrate: colpito a morte, l’oste si accascia a terra.
È la prima vittima della ferocia teutonica.
I militi del 15° SS Polizei Regiment fanno irruzione all’interno, afferrano Francesco Sassone, manovale di 55 anni che era andato al "Savona" per aiutare Giolino ad imbottigliare il vino, e lo portano via.
Gli spari richiamano l’attenzione di Carlo Gardino, 51 anni, fattorino del farmacista Vigliani.
L’uomo, che abita lì vicino, dice alle sue due figlie di rimanere in casa e esce per vedere cosa sia successo: viene subito bloccato dai soldati con la svastica dipinta sull’elmetto.
I tedeschi catturano poi altri tre sventurati e li portano al comando di via XX settembre: sono Norberto Minarolo (49 anni) e Pierino Mosca (51 anni), entrambi di Pralungo, contadino il primo, operaio cardatore il secondo, e Aurelio Mosca, marinaio in licenza «che era uscito per comprare il latte alla sua piccina» (Gustavo Buratti).
I sette prigionieri trascorrono una notte da incubo, segnata da sevizie e percosse; la dose maggiore di botte la subiscono i due partigiani, Alfredo Baraldo e Basilio Bianco, perché i tedeschi vogliono che parlino, che dicano chi sono e dove si trovano i loro compagni: « […] battevano sempre, con lo staffile di gomma, calcio del fucile, battevano sempre, poi uno per volta ci portavano sopra, dove c’era l’interprete per interrogarci, chiederci tutte quelle cose e lì giù botte. Soltanto interrogatori e botte… e niente da fare!» (Testimonianza di Alfredo Baraldo raccolta da G. Buratti).
Niente da fare: i due non parlano.
I cinque ostaggi invece piangono, si disperano, implorano la grazia: non hanno fatto niente, perché li trattengono, cosa vogliono da loro?
Vendetta.
I tedeschi vogliono vendetta per i loro camerati uccisi; e anche il capo della provincia Morsero è stato chiaro: è necessario dare alla popolazione una dimostrazione di forza, per far capire chi comanda.
Tocca a Baraldo leggere ai suoi compagni di sventura la sentenza che li condanna a morte.
La mattina di mercoledì 22 dicembre 1943 i prigionieri sono condotti sul luogo dove saranno fucilati: piazza San Cassiano, detta anche "piazza del Gallo" per via dell’Albergo del Gallo Antico che si trova a fianco della chiesa; mentre percorrono via Umberto (via Italia) la moglie di Aurelio Mosca, il marinaio in licenza, si affanna a chiedere dove li stiano portando: quando le rispondono che stanno per essere fucilati sviene di colpo.
Giunti sul posto, i sette vengono schierati davanti alla facciata dell’albergo: «Nessuno parlava. Forse per le botte e i lividi che dolevano o per il terrore, nessuno riusciva ad aprire bocca. Avevamo visto gente lungo il corso, che guardava ed erano anche i tedeschi che costringevano a fermarsi e a guardare quello che stava succedendo. C’era gente anche alle finestre che si affacciavano sulla piazza» (Test. di A. Baraldo).
Il plotone d’esecuzione si schiera.
I dodici militari che lo compongono puntano i fucili, attendono l’ordine di aprire il fuoco; ai condannati non è concesso neppure il conforto di un sacerdote.
Carlo Gardino piange, continua a ripetere che lui non ha fatto niente.
La scarica di proiettili squarcia l’aria, sette uomini si accasciano sul selciato.
L’ufficiale che comanda il plotone si avvicina per dare il colpo di grazia: sei colpi, quanti ne contiene il caricatore della pistola, che rimbombano sulla piazza.
Sei colpi, ma i corpi sono sette.
I tedeschi se ne vanno, lasciano solo due sentinelle; non si sono accorti che uno dei fucilati è ancora vivo, seppur gravemente ferito allo stomaco.
È il partigiano Alfredo Baraldo, che spinto dalla disperazione si alza e si catapulta nel cortile del Gallo Antico: riesce a salvarsi e dopo qualche settimana riprende la via della montagna.
Alla concitazione e alla sorpresa suscitate dall’improvvisa quanto sorprendente fuga di uno dei fucilati fanno seguito il silenzio e la rassegnazione.
La guerra, brutale e spietata, ha preteso da Biella le sue prime vittime civili.
Ad esse altre si aggiungeranno nel lungo cammino verso la Liberazione.
Le fotografie provengono dall'archivio Cesare Valerio, di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella
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