Il Natale del 1943 è stato sicuramente uno dei più dolorosi nella storia di Biella: la tragica serie di eventi luttuosi verificatasi nella settimana compresa tra il 21 e 25 dicembre e culminata con la fucilazione di sei ostaggi nella piazza San Cassiano del rione Riva, catapultò il Biellese (fino a quel momento rimasto relativamente calmo) nella spirale di violenza della lotta tra partigiani e nazifascisti.
Fino ai primi di dicembre del 1943 la situazione dal punto di vista dell’ordine pubblico è stata mantenuta da tedeschi e fascisti sotto controllo.
Dopo la firma dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli angloamericani i tedeschi hanno provveduto ad occupare rapidamente tutti i centri nevralgici del paese, arrivando a Biella il 21 settembre; negli stessi giorni si è riorganizzato anche il fascio cittadino, di cui è divenuto segretario l’avvocato Umberto Savio (che è stato deputato socialista nei primi anni del Novecento).
A Biella è di stanza il 53° reggimento fanteria comandato dal colonnello Maffei: dopo l’annuncio della resa agli Alleati il reparto si è sbandato.
Dismessa la divisa, i militari che non sono riusciti a raggiungere i paesi di origine si concentrano nelle zone collinari e montuose del Biellese decisi a sfuggire ai rastrellamenti tedeschi e alle conseguenti deportazioni in Germania; ad essi ben presto si aggiunge un consistente numero di soldati provenienti dalla Francia meridionale e dalla Jugoslavia.
Proprio questi militari, riuniti in piccoli gruppi guidati da ufficiali, danno origine ai primi nuclei di resistenza armata, in particolare nella zona di Graglia, di Oropa e del Bocchetto Sessera; a loro si affiancano alcuni giovani antifascisti, anch’essi spinti dalla volontà di sottrarsi ai tedeschi.
Le diffidenze e i sospetti reciproci che caratterizzano i rapporti tra i vari partiti antifascisti biellesi (democristiani, liberali, azionisti, socialisti e comunisti) impediscono però di creare un fronte compatto capace di opporsi ai tedeschi.
Solo i comunisti, già l’11 settembre, predispongono un piano di resistenza armata che prevede la suddivisione del territorio biellese in dieci settori affidati ad altrettanti organizzatori responsabili (citiamo alcuni dei più noti, che diverranno in seguito comandanti o commissari politici delle formazioni partigiane biellesi: Francesco Moranino, Anello Poma, Domenico Bricarello, Quinto Antonietti).
Il problema principale è comunque il reperimento delle armi, dal momento che il colonnello Maffei si è rifiutato di consegnare quelle affidate alla sua custodia.
Verso la fine di ottobre viene inviato a Vercelli per assumere la carica di capo della provincia Michele Morsero, già segretario federale di Lucca: uomo duro e intransigente, Morsero è determinato a ristabilire l’autorità dello stato fascista, che il 1 dicembre assumerà la denominazione di Repubblica Sociale italiana.
Anche a Biella si provvede a riorganizzare la struttura fascista: Morsero conferma l’avvocato Savio come segretario del fascio locale, nomina la professoressa Silvia Zappi responsabile del fascio femminile e apre la campagna per le iscrizioni al nuovo partito fascista repubblicano (le adesioni, malgrado la continua proroga dei termini di chiusura, saranno però scarse).
Il passo successivo si indirizza verso i militari sbandati che si trovano sulle colline e montagne del Biellese: all’inizio di novembre Morsero emana un proclama in cui li invita a rientrare nella vita civile e assicura loro la possibilità di essere riassunti nelle fabbriche in cui lavoravano in precedenza.
L’appello, sostenuto dai tedeschi che vogliono lasciare nel Biellese la forza lavoro necessaria a mantenere in attività le fabbriche destinate alla produzione bellica, convince un buon numero di coloro che si sono rifugiati sulle montagne per sfuggire alle deportazioni in Germania a tornare alle proprie case e al proprio lavoro.
Accanto all’iniziativa politica, tedeschi e fascisti affiancano anche quella militare: tra il 31 ottobre e il 13 novembre attaccano e disperdono i gruppi di sbandati che ancora si trattengono nella valle Elvo, nei pressi del santuario di Graglia e nella zona di Sant’Eurosia.
La consistenza della forza partigiana, dopo queste azioni militari, si aggira attorno agli 80-100 uomini.
Il Comitato militare della federazione comunista di cui fanno parte Adriano Rossetti, Anello Poma e Piero Pajetta decide di inquadrarli in sei distaccamenti, dipendenti dal comando delle brigate Garibaldi del Piemonte e così organizzati: il "Fratelli Bandiera", comandato da Quinto Antonietti ("Quinto") e operante nella zona valle Cervo, il "Piave", comandante Ermanno Angiono ("Pensiero") nella zona valle Strona, il "Carlo Pisacane", comandante Francesco Moranino ("Gemisto") nella zona Valsessera, il "Nino Bixio", comandante Bruno Salza ("Mastrilli") zona valle Elvo, il "Goffredo Mameli", comandante Romano Casalino ("Tonino") a cui fu affidata la valle di Andorno, e il "Giacomo Matteotti", comandante Leo Vigna ("Leo"), nella zona di Coggiola.
Nelle intenzioni della direzione comunista di Milano, che sottolinea ironicamente come il Biellese sia per i tedeschi una "oasi di pace", all’organizzazione delle formazioni biellesi deve far seguito una serie di azioni di disturbo: il mese di dicembre è così caratterizzato da una crescente attività militare dei distaccamenti partigiani, che culmina con il sostegno agli scioperi proclamati in diverse fabbriche della zona nella seconda metà del mese.
Il capo della provincia Morsero, di fronte al preoccupante aggravamento della situazione nella provincia e in particolare nel Biellese e in Valsesia (dove operano le formazioni guidate da Vincenzo "Cino" Moscatelli) invia con sempre maggior insistenza al Ministero dell’Interno, al Comando Generale dei Carabinieri e a quello della Milizia (la Guardia nazionale repubblicana di Renato Ricci) richieste di nuovi contingenti di militari e di carabinieri.
Il 13 dicembre il capo della provincia si rivolge anche al comando militare tedesco di Vercelli, che però si mostra evasivo in merito ad un possibile intervento delle sue truppe, come lo stesso Morsero lamenterà qualche giorno dopo in un fonogramma inviato al ministro dell’interno della Rsi Guido Buffarini Guidi.
Rinfrancati dalle azioni compiute e dalla trascurabile reazione dell’autorità, affidata per la gran parte a questurini e carabinieri (questi ultimi sospettati dagli stessi fascisti di essere troppo poco legati alla causa della Repubblica Sociale) e decisi ad appoggiare le rivendicazioni che gli operai delle fabbriche biellesi stanno portando avanti in campo salariale, i distaccamenti partigiani decidono di sostenere gli scioperi che già sono scoppiati negli stabilimenti di Crevacuore, Pray e Coggiola e di organizzarne altri in tutto il Biellese per il 21 dicembre 1943.
A Cossato gli operai escono dalle fabbriche già nel pomeriggio del 20; la mattina dopo i partigiani del "Bixio" scendono a Sordevolo, Netro e Mongrando, dove disarmano i carabinieri e bruciano le liste dei giovani in età per il servizio militare; la valle di Andorno è occupata dagli uomini dei distaccamenti "Mameli" e "Fratelli Bandiera", che si dispongono a presidiare la Filatura di Tollegno.
Informato dello sciopero dal commissario prefettizio di Biella, Baldassarre Trabucco, il capo della provincia Morsero si affretta a contattare i suoi omologhi di Aosta e Novara chiedendo l’invio di truppe sui confini della provincia a rinforzo dei reparti tedeschi operanti a Biella; nel frattempo il comandante tedesco della piazza di Vercelli si decide ad inviare nella città laniera una compagnia di militari a rinforzo della guarnigione presente.
La situazione appare estremamente critica e lo stesso Trabucco, sopravvalutando enormemente il potenziale numerico dell’avversario, paventa la presenza di 200 ribelli armati alle porte di Biella.
Morsero è anche distratto dalle notizie provenienti dalla Valsesia, dove i partigiani di Moscatelli hanno intrapreso una serie di attacchi analoghi a quelli portati avanti nel Biellese.
L’uccisione di tre soldati germanici, due a Tollegno e uno a Biella, scatena la violenta reazione nazista: alcuni testimoni hanno affermato che i tedeschi intendevano dare alle fiamme il quartiere Riva e che solo l’intervento del vescovo Carlo Rossi, recatosi presso il comando germanico su insistenza del parroco di San Cassiano don Tricerri, riuscì ad evitare una simile distruzione.
I provvedimenti di polizia adottati in città dal comando militare tedesco di Vercelli sono comunque durissimi: il coprifuoco viene fissato dalle 17 alle 6 del mattino; è imposta la chiusura di tutti gli esercizi pubblici e di tutti i negozi in genere (solo gli alimentari avrebbero potuto riaprire nella giornata del 23 dicembre); l’ingresso in città è consentito ad una sola persona per volta, minacciando il ricorso alle armi nei confronti dei gruppi di due o più persone; sono presi degli ostaggi, con la minaccia di fucilarli se i disordini continueranno; è sospesa la circolazione delle tramvie, delle Ferrovie Elettriche Biellesi e di qualunque altro veicolo, incluse le biciclette.
La prima vittima della vendetta tedesca è Angelo Cena, ucciso il 21 dicembre senza alcun motivo apparente dentro la trattoria "Porto di Savona", all’angolo tra via Pietro Micca e via del Littorio (l’odierna via Amendola); la mattina del 22 sette ostaggi, tra cui due partigiani del distaccamento "Mameli" catturati il giorno prima, sono condotti in piazza San Cassiano e fucilati.
Sempre il 22 dicembre i tedeschi, organizzati in una autocolonna, si recano prima a Tollegno, dove fucilano altre quattro persone: Giacomo Janno, Angelo Martinazzo, Pietro Pastore e Alfonso Strippoli (questi ultimi rispettivamente di 14 e 15 anni); poi proseguono su per la valle del Cervo sparando contro le case per intimorire la popolazione e uccidendo nei pressi di Campiglia Giuseppe Mosca Zonca.
La spedizione punitiva termina il 23 dicembre a Vallemosso: i soldati tedeschi rastrellano meticolosamente il centro abitato, fermando tra gli altri tre operai in sciopero che sono immediatamente fucilati: Gino Camozza, Ugo Lanzone e Francesco Panichi.
Anche il Biellese orientale piange i suoi morti.
Nel tardo pomeriggio del 22 dicembre i militi fascisti del 63° battaglione M "Tagliamento" della Gnr, comandati dal 1° Seniore Merico Zuccari, raggiungono Cossato, provenienti da Borgosesia, dove hanno fucilato undici persone tra cui l’ex podestà Giuseppe Osella; durante il tragitto fanno un’altra vittima a Crevacuore, l'antiquario Remo Fava Frera.
A Cossato i fascisti si schierano lungo le strade, mentre Zuccari insedia il suo comando presso il municipio: intorno alle ore 22 due operai, Ido Boschetto e Giovanni Battista Pizzorno, accusati di detenere in casa delle armi, vengono fucilati sulla piazza del paese.
Nessun accenno agli scontri tra partigiani e tedeschi e alla rappresaglia compiuta da quest’ultimi compaiono sul giornale fascista "Il Lavoro Biellese"; "il Biellese", sottoposto alla censura fascista, si limita a riportare l’avviso del comandante tedesco della piazza di Vercelli riguardante i provvedimenti di polizia adottati in città e un appello del commissario prefettizio Trabucco che invita la cittadinanza alla collaborazione con le autorità germaniche.
La vigilia di Natale, il vescovo di Biella mons. Carlo Rossi fa sentire la sua voce dalle pagine del giornale cattolico: il presule biellese esprime tutto il suo dolore e il suo sconforto per i luttuosi avvenimenti verificatisi nel Biellese e, senza mai nominarli, rivolge una dura reprimenda ai partigiani, ritenuti i principali responsabili della spirale di violenza in cui è precipitato il territorio biellese.
La presa di posizione di mons. Rossi suscita un’impressione negativa tra le file garibaldine, contribuendo a complicare i già non facili rapporti tra Chiesa biellese e formazioni partigiane.
Senza dubbio però «le parole del vescovo di Biella – hanno sottolineato Anello Poma e Gianni Perona – valevano […] non tanto come espressione di un sentimento personale, ma come riflesso dell’astio con cui molti, nelle zone colpite dalle rappresaglie, rimproveravano ai partigiani di aver fomentato movimenti popolari senza poter difendere la popolazione».
L’eccidio di piazza San Cassiano (e l’azione repressiva condotta da tedeschi e fascisti su tutto il territorio biellese) rappresenta la fine di quella sorta di "quieto vivere" che ha caratterizzato Biella fino a quel momento e che è stato stigmatizzato dal Comitato militare comunista di Milano: nei mesi a seguire altro sangue sarà versato sulla strada che condurrà le formazioni partigiane biellesi all’epilogo vittorioso dell’aprile 1945.
Le fotografie provengono dall'archivio Cesare Valerio, di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Biella (È vietata la riproduzione e la diffusione delle immagini senza la preventiva autorizzazione del titolare dei diritti) e dall'archivio fotografico dell'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia (Fondo Moscatelli)
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